Quando mi si è rotta la tibia cadendo dall’albero di ciliegie

[dopo]
Mia sorella ha preso un pennarello nero. Per cercarlo ha aperto tutti i cassetti della mia camera, della sua ed anche del salotto.
Mia sorella ha undici anni, solo tre meno di me, e so che mi mi vuole bene anche se passiamo la maggior parte del tempo a litigare per stupidaggini.
Ha scritto < Guarisci presto!> con un punto esclamativo.
Poi ha disegnato un cuore, l’ha anche colorato dentro ma la punta si è rovinata e non è venuto bene.
Ha pianto quando mi ha visto andare via con l’ambulanza e poi ha sorriso quando mi ha visto tornare a casa con le stampelle e con qualche giorno di “vacanza” dalla scuola giusto una settimana prima che finisse.

[prima]
A giugno a casa mia l’albero di ciliegie si riempie di frutti. Dopo tutti quei fiori bianchi un trionfo di rosso.
Di vergogna e passione e voglia di avventure.
Ancora sono un bambino nonostante i baffetti accennati e la voglia di uscire la sera o di scopare.
Ho bevuto una birra con Luca l’altro giorno. Una birra a metà. Mi girava la testa eppure mi sentivo adulto con quella bottiglia in vetro verde, attaccarsi per bere un sorso come fanno i più grandi per poi accendersi una sigaretta e resistere a non tossire ad ogni tiro.
È sempre drammatico il ritorno a casa in motorino, a bocca aperta mangiando i moscerini e le zanzare affinché mia mamma non sentisse odori. Né di alcol. Né di fumo.
In realtà lei non sentiva solo perché era fumatrice, ma quasi certamente sapeva. Non facevamo nulla di male. Saremo andati incontro a tumori o futuri incerti da alcolisti o drogati? Non lo so.
Però adoravo ancora arrampicarmi sugli alberi. Sognavo di viaggiare e le avventure alla Livingston (senza perdersi intorno ad un lago).

Le ciliegie erano mature ed io ero sempre sull’albero. La scuola stava per finire e avevo tre mesi di vacanza, mare e giornate con gli amici cercando di incontrare qualche ragazza con cui provare a baciarsi e toccarsi.

Stavo passando una corda su un ramo, l’ho legata bene e sono salito.
Arrivato al primo grande ramo tiro su la corda e la passo su un altro ramo.
Mangio due ciliegie.
Un colpo di tosse e perdo l’equilibrio.
Neanche mi accorgo che sono a terra dolorante, mi alzo e a fatica mi porto in casa. La gamba mi si gonfia così mi tolgo la scarpa e aspetto.
Dopo due ore ho una caviglia enorme e mi viene voglia di urlare, resisto. Mia sorella è preoccupata ma ora sono io l’uomo di casa. Non devo mostrarmi debole. Non posso, non ora.
Al ritorno di mia mamma urlo di dolore, capisce che ho rotto qualcosa e chiama l’ambulanza.

La sala gessi è piena di persone più o meno come me. Alcuni lo devono tagliare via, altri lo devono mettere. Gli infermieri mi fanno ridere ed io sto quasi bene nonostante abbia già intuito che i pruriti adolescenziali dovranno ancora essere sedati in bagno.
Mia mamma ha voglia di riempirmi di schiaffi ma sa che ho solo bisogno di baci.

Ho quattordici anni e sono ancora un bambino nonostante i baffetti accennati e la voglia di uscire la sera o di scopare.

Funerale

[della brevità virtù]
Sono stato ad un funerale, ho visto molta gente che presenziava più per l’immagine che la defunta aveva che per conoscenza.
Io stesso ero li in veste di portabandiera dell’ANPI.
Come al solito ho pensato ai miei nonni, a quando toccherà a me ringraziare e commuovermi.

Ho deciso che io al mio funerale non vorrò esserci.
Voi andate a mangiare un piatto di tagliatelle, bevete del buon vino.

Salute.

Schermata 2015-01-17 alle 15.43.06

Abbraccio

[prima]
Quel tratto di strada, gli ultimi due chilometri e mezzo, era praticamente al buio. Si erano completamente disinteressati di illuminare la zona. Ormai il mio quartiere era diventato un dormitorio. Storie di droga e di ladri e di periferia.
Io avevo comprato una bicicletta nuova, da corsa però con le sembianze vintage. L’amavo quella bicicletta e ci avevo pure speso parecchio.
Quella notte la luna piena illuminava il mio tragitto e appena prima di arrivare al ponte dell’autostrada, dove ci sono ancora dei campi d’erba, mi voltai sulla destra.
Il cane marrone al bordo della strada mi guardava e lo guardavo anche io. Pedalavo, eppure era come se stessi sempre fermo.
E ci fissavamo senza che nessuno dei due facesse niente.
Io pedalavo e lui mi guardava e il tempo s’era fermato e la luce della luna piena ci illuminava quasi a giorno.
Non mi ha abbaiato addosso e io non avevo paura della sua maestosità.

[qualche tempo dopo]
Quel ragazzetto in motorino stava andando come un matto. Ho sempre odiato la gente che va veloce per strada, soprattutto nelle strade di città.
Mi sorpassa e poi sorpassa l’autobus arancione numero 21 che nel frattempo aveva messo la freccia a sinistra e ovviamente inizia a girare. Il giovane non si accorge e viene quasi schiacciato come una mosca contro un’auto parcheggiata.
Vedo volare una scarpa e penso abbia perso un piede. Mi era sembrato di vedere la tibia e il perone e la caviglia staccarsi dal corpo. Forse era solo una pessima impressione però sicuramente il ragazzetto s’era fatto male.
Parcheggio poco più avanti la mia Volkswagen rossa e, con andamento quasi disinteressato, mi avvicino. Non ha perso nessun arto però s’è sicuramente rotto qualcosa e si lamenta del dolore. L’autista dell’autobus si lamenta quasi più di lui e gli consiglia di togliersi il calzino perché la caviglia gli si gonfierà parecchio.
Ho un coltellino svizzero appeso ad un moschettone con le chiavi di casa. Lo prendo e noto che il ragazzo ha una cavigliera identica alla mia. Quella che mi regalò Martín, l’argentino ad Albufeira.
Rimasi immobile e non riuscii a guardare in faccia il ragazzetto. Mai!
Guardavo il piede e il coltellino che cercava di tagliare la cavigliera inutilmente.
Chiesi scusa e me ne andai. Pensarono fossi pazzo.

[appena più tardi]
Preso l’ascensore ed entrato in casa l’ho vista preparasi per un uscire. Cercava le chiavi e trottolava su quei tacchi con un vestito quasi formale.
Io avevo qualcosa che non andava, non dissi niente e ci abbracciammo. Fu come un ultimo abbraccio, come se non ci dovessimo vedere mai più.
Non era un addio, era libertà. E la televisione parlava di morti in una redazione di un settimanale a Parigi. Era uguaglianza e fraternità.
Lei usciva di casa e la mia caviglia si stava gonfiando.
Mi faceva male e la mia cavigliera, quella che mi regalò Martín, l’argentino ad Albufeira, mi stringeva.
Cercando di tagliarla con il mio coltellino svizzero mi sono reso conto che non c’era niente da fare. Il dolore era terribile, mi buttai per terra e cercai il telefono.

[infine]
L’autobus ha stretto a sinistra e mi sono ritrovato per terra. Sono rimasto svenuto per un attimo mentre qualcuno mi ha tagliato la cavigliera, quella che mi regalò Martín l’argentino, ad Albufeira. Avevo rotto tibia, perone e la bicicletta nuova. Aspettavamo l’ambulanza però io ho pensato solo a due cose.
Un cane marrone mi guarda senza dire nulla.
Una bella ragazza mi abbraccia. Un abbraccio che sa di libertà e di uguaglianza e di fraternità.

Chinatown di Roman Polanski (1974)

[introduzione]
Domenica sera, pioggia, Berlino.
Hangover.
Ostello in Warschauer straße, camerata da 12 vuota.
L’occhio cade immobile su Chinatown del Polanski. Si andrà a Varsavia, si guarderà un film polacco.
Che poi tanto polacco non è.

[lo svolgimento delle cose]
Essendo un film noir non ci si dovrebbero aspettare grasse risate. Magari ci si aspetta pioggia e buio, invece qui c’è una Los Angeles sul finire degli anni ’30, in piena siccità.
Jack Nicholson è un grande attore ed anche qui non è niente male.
Ex poliziotti, cinesi malamente doppiati (presumibilmente male interpretati anche in lingua originale), belle signore, una quasi scena di sesso e una specie di colpo di scesa sono il fulcro delle cose.

[epilogo]
Non riesco a scrivere nient’altro su questo film.
Non so neanche dire se mi sia piaciuto o meno…
Probabilmente l’hangover berlinese mi ha appiattito così tanto il cervello che ho visto solo delle immagini e niente di più.
Probabilmente descrivere le sensazioni del mio stomaco e la mia produzione cerebrale durante un tardo pomeriggio freddo e piovoso, lontano da casa e dalle persone che amo sarebbe stato decisamente più noir.
Decisi di comprare un pesce rosso.
E lo comprai al mio ritorno in Italia.

Riga Gelata [o come arrivare completamente impreparati nel medio-grande nord europeo]

[pre-introduzione]
Dell’impreparazione alle gelate o della totale ingenuità con cui ci si approccia al grande freddo ne sono maestro.
Giungo a Riga con un “ostalgico” pulmino pieno di russi e due italiani (uno ero io e l’altro era Leo, il mio collega di viaggio). Il riscaldamento probabilmente si era rotto durante i giochi olimpici invernali di Sarajevo del 1984 e mi trovo costretto ad avvolgere cappello e sciarpa nel braccio adiacente al finestrino.

[post-introduzione]
Riga è la capitale della cultura 2014. Julija, lituana, studia antropologia all’università di Riga dopo aver passato un anno a Pesaro per uno SVE e siamo diventati parecchio amici. È una ragazza intraprendente, non si stanca mai, fa un sacco di cose. La maggior parte di queste sono particolarmente interessanti e non ci pensa molto ad includere due italiani nei suoi giri.
Per noi è facile essere introdotti nella vita culturale locale.

[approcci al gelo]
Ho un ricordo, di quando ero bambino, di una forte nevicata. Non ricordo se era il 1990 o il 1991. Mio babbo abbandona l’auto in autostrada, fortunatamente vicino casa, e decide di tornare a piedi. Sono più o meno 2km nella tempesta. Una forte tempesta che viene dai Balcani (poco dopo anche le bombe nell’Adriatico).
Mio babbo entra in casa congelato e nel togliersi il cappotto ci rendiamo conto che è totalmente ghiacciato. Mia nonna lo prende, lo appoggia per terra e rimane in piedi. Eretto dal gelo.
Io e il mio parka blu comprato durante i saldi di H&M più o meno siamo uguali a quel cappotto di oltre venti anni fa. Solo che qua è una cosa normale.
Autunno, dice Julija. Autunno e -4°.

[lo svolgimento della cosa]
Finiamo in una specie di festival del cinema con in corpo un mezzo litro di vodka e una bottiglia di birra. Ho deciso che le mie placche alla gola sono una cosa del passato. Ed è così. La gola non mi brucia più neanche alla quarta sorsata di vodka. Neanche all’ennesima sorsata di Riga Black Balzams.
Io indosso una maglietta a maniche corte, una felpa, un maglione, il parka, la sciarpa, il cappellino col ponpon, un paio di jeans e due paia di calzetti. Finalmente ho caldo!
Viva la Vodka, cantava Richard Cheese and The Lounge Against The Machine Band.
Alla fine di una serie di cortometraggi pressoché assurdi ci incamminiamo verso un locale assolutamente underground, con un dj tecnone, uno spazio all’aperto e un leone gigantesco appeso alla parete esterna. Le lettoni ballano e sono bellissime. Una sembra uscita dal video di Jamie XX del remix di Sunset. Una camicia di ciniglia che andava di moda in scandinavia nel 1976 e un taglio di capelli talmente naif che era impossibile non innamorarsene al primo sguardo. Movimenti ondulatori al non-ritmo della tecno minimalista nordica. Quella ragazza non avrà studiato danza nella sua vita, ma sicuramente ha spezzato molti cuori in questa stagione dal vestiario kitsch.
Arriva una ragazza col cane e mi chiede gentilmente se posso tenerglielo che lei vuole andare al bagno.
Non so assolutamente il motivo ma la mia risposta è stata brutalmente negativa.
Io non sono così. Forse il mio substrato cerebrale ha inteso tutt’altro?
Nel frattempo continua a gelare e la temperatura non sale sopra lo zero.
Siamo in un bar chiamato Chomsky con il disegno del Noam nella parete, divanetti post sovietici, gente vestita molto beve birra. Musica a basso volume. Noi siamo i più rumorosi. Birra e Vodka per me.
Birra con dentro la Vodka.
Rimaniamo in 4 e si aggiunge una ragazza belga che lavora come lettrice all’università. Non è bella, me la ricordo butterata e magra e con una grande voglia di parlare. Fuori ho incontrato un gatto, le ho chiesto se lo vuole ma no.
La cosa mi preoccupa. Cosa fa un gatto in inverno a Riga? Non riusciamo a trovargli una casa però il tipo del bar s’è preso a cuore la cosa e ci ha assicurato che si sta già adoperando per trovargliene una.
A casa prepariamo dei panini e penso.

Io con questo freddo ho bisogno di abbracci, di calore umano. Ne ho un maledetto bisogno.
Perché la gente qui non si abbraccia di continuo? Il freddo ti fa sentire solo. Nessuno può aiutarti se hai freddo. Sarai solo tu e il freddo. Gridare senza nessuna risposta.

Una amica di Julija, sulla trentina, occhiali da vista e occhietti minuscoli anche dietro le lenti spesse mezzo centimetro asserisce con me sulla necessità di abbracci. Ci abbracciamo poi abbraccio Julija e capisco che sono emozionate.
Intorno a noi ci guardano male.
Sono emozionate in maniera diversa tra loro. L’amica perché sta abbracciando uno sconosciuto. Perché lo stiamo facendo in un bar di Riga. Perché ho seriamente voglia di abbracciare una persona e lo faccio capire.
Julija perché si, ci stiamo abbracciando in un bar di Riga e lei è una lituana, ma io e Leo siamo stati un po la sua famiglia durante la tua permanenza in Italia e non ci vediamo da molti mesi. Un abbraccio sentito.

Decido di passare la giornata in casa mentre loro se ne vanno a spasso per una foresta. La temperatura esterna non mi convince per niente. Così comprerò stupidaggini, scatterò foto.
Prenderò cura del mio corpo.

[Riga Black Balzam]
Ci fermammo in un negozio di liquori. Ci si prose di comprare qualcosa di locale e spuntò questa bottiglia nera. L’aprimmo e un liquore amaro di mirtilli raggiunse lo stomaco.
Terribile pungente sapore di qualcosa di chimico.
Bevi un sorso e pensi che sarà l’ultimo della tua vita perché fa male!
Poi il secondo, il terzo sorso ti fa pensare, il quarto stai a guardare questo eterno presente che capire non sai.
L’ultima volta non arriva mai.
Come il sesso.

Ed è finita la bottiglia.

Biophilia e placche alla gola [essere malati a Vilnius]

Dissi “basta!” al nord Europa, quel nord scandinavo, dopo esser tornato da Copenhagen. Una città che, oltre a non avermi lasciato nulla, mi ha svuotato il portafoglio.
Questa volta si è prospettato, dopo la mia permanenza lavorativa al sud della Spagna, un tour da Berlino fino a Riga (capitale della cultura 2014).

[Vilnius]
Mi sarei aspettato quel degrado post sovietico tipico dell’immaginario collettivo che l’occidente ha delle ex repubbliche socialiste, ma a parte qualche autobus o qualche bel palazzone (in Italia abbiamo fatto molto di meglio… sopratutto a Pesaro!) non v’è traccia di un passato comunista.
Il mio stupore all’arrivo al centro città fu più o meno come il mio arrivo a Malmo in Svezia.
Tutto stracazzo preciso e pulito.
Ragazze bellissime biondissime velocissime con auto lucidissime e nuovissime. Gente che ferma la propria Volvo sulle strisce pedonali piastrellate per fare passare due italiani scapestrati e stupiti di ciò che stavano vedendo.
Questa è Lituania? oppure siamo in Scandinavia? Dov’è il degrado?
Qui il degrado non c’è! Mai più grande delusione.
Un terribile freddo autunnale mi avvolge e mi penetra nelle ossa.

[Placche alla gola e ostello]
Dopo la prima serata a base di free jazz finlandese, un paio di vodke e una birretta, torno in ostello e a malincuore capisco che sto poco bene. Ho freddo e mi fa male la gola.
Probabilmente ho la febbre, inizio a ingurgitare Brufen 400mg e Tachipirina e buste di zuppette Knorr liofilizzate.
Siamo costretti a rimandare la partenza per Klaipeda ed io mi sono trovato bloccato a dormire tutto il giorno, guardare film, leggere… a Vilnius. Una città che probabilmente non sopporto, dove è freddo quasi quanto la gente.
Fortunatamente l’ostello è carino e accogliente. Sabato sera sono venute due ragazze di Minsk nella camerata dove dormo. Una era particolarmente arrabbiata e s’è messa a dormire alle 22.15, l’altra, che parlava italiano, s’è messa a fare un po di festa con dei russi nella hall dell’ostello.
Ho ascoltato almeno 15 volte l’album Biophilia di Björk.

Martedì mattina alle 6.45 abbiamo il treno per Klaipeda, prenderemo un’auto e proveremo a passare il confine russo.
L’idea di entrare nell’Oblast’ di Kaliningrad è seriamente affascinante.

[Questione abiti]
Proprio non c’ho preso. O meglio, le cose autunno/invernali me le sono anche procurate, ma qui l’autunno è esagerato.
Caviglie scoperte, Vans bucate dove entra acqua inumidendomi i piedi, parka estivo, sciarpa e cappello di lana col ponpon.
Adesso devo comprare un cappotto o una coperta, un paio di scarpe nuove e probabilmente dei calzetti.

Aveva ragione mio babbo quando molti anni fa mi disse che si stava meglio dove fa caldo piuttosto che al freddo. Il prossimo anno punterò nuovamente tutto verso il sud est asiatico.

Ascensore per il patibolo

[introduzione]
Era buio già da parecchie ore in Via Mazza. Aveva appena smesso di piovere e l’inverno si sentiva come al solito con tutta la sua umidità.Le luci gialle dei lampioni erano decisamente più luminose del normale. Sarà la pioggia che s’è portata via quella leggera nebbia o gas di scarico.
I gatti miagolavano, la vecchia aveva le crocchette e le stava razionando. Si gira, vi guarda e mi sorride. Non era poi così vecchia. Probabilmente 53 anni. Dimostrava decisamente di più forse per la trascuratezza dei vestiti, o perché inesorabilmente la mia mente associava il suo amore per i felini alla “gattara” dei Simpson.

Un cerbiatto ad Hanoi non me lo sarei mai aspettato.

[prima]
Ci siamo incontrati dietro un cinema in centro, una zona decisamente inconsueta. Solitamente erano sempre bar per un birra.
Oltretutto il cinema aveva chiuso da parecchio, o forse lo sembrava. Era anche particolarmente buio e l’atmosfera era quella da “ora pesto probabilmente uno morto di overdose”.
«ehi Dani, andiamo all’Hercules che c’è più gente? Per lo meno due fighe… qui solo drogati, io e te!»
«ciao… ho fatto un casino, mi serve una mano…»
Effettivamente il morto c’era ed una ragazza. Sui 26 anni, castano chiara, due belle cosce e due belle tette burrose. Puzzava di merda, occhi sbarrati e un sorriso di strangolamento nel collo.

[mentre]
Siamo abbastanza fuori di testa da averla sepolta in una giardinetto. Che Fare? Non ci viene in mente niente e ricominciamo con la stessa vita.
«non dormo più tanto bene e tu vuoi offrirmi un caffè? Va bene, vengo a farti un saluto. Non volevo sapessi fossi tornato. Ne va di molte cose. Di me e soprattutto di te.»
Entrando in casa mi squilla il vecchio Nokia su sui ho l’altra scheda, rispondo.
«è successo un casino. Mi cerca la polizia. Sono fuori strada ma ho paura di esserlo pure io.»
«mi scusi, ci conosciamo?»
Chiudo e dentro di me bestemmio.
Entro e lei è sempre favolosa, potrei cedere al dondolamento del suo culo in ogni momento. Un dolce dondolamento. Di lei mi potevo fidare, ci conoscevamo talmente tanto bene che sapevamo entrambi che insieme non saremo durati più di qualche settimana. Lei regressò alla mediocrità di paese ed io che mi atteggiavo a uomo di mondo di sto cazzo.
«ho aiutato una persona a sbarazzarsi di un corpo. La ragazza era una che lavora con lui, una testa di cazzo sembra. Io vomito ed ho gli incubi tutte le notti e il mio stato di disoccupazione non favorisce le cose. A casa pensano sia depresso, che mi dovrei curare e così ho cominciato con qualche medicina. Come sai mi piacciono le medicine e ne prendo un sacco. Ora sono completamente rimbecillito e devo dire che ci sto bene.»
«ehm… ciao… mi spieghi meglio?»
Esco di casa, aveva appena smesso di piovere, passo per Via Mazza. Una donna che sembra vecchia e trascurata sta dando da mangiare ai gatti, si gira e mi sorride. Io penso immediatamente alla “gattara” dei Simpson.

[dopo]
Non reggerò mai chiuso in una stanza. Forse poi troverò un lavoro. Ho passato trenta anni di vita immaginandomi ed ora ringrazio per aver avuto la possibilità di conoscere, di vedere, ascoltare e sentire. Probabilmente ho dato meno di quello che ho ricevuto, probabilmente ho provato meno di quello che avrei potuto provare.
L’ha fatto, e l’unica cosa che mi viene in mente è l’incipit del film “L’Odio” … fin qui tutto bene.

Un tonfo, un allarme ed un urlo.
«qualcuno si è buttato… ha sfondato quella macchina!»

Non so realmente come possa essere uccidere una persona, non so nulla. Il caso fu archiviato e qui siamo comunque tutti vestiti di nero.

{commento dell’autore}
Sabato 5 ottobre ho passato la serata nel bar del camping a Los Caños de Meca in cui ho lavorato. il campeggio era chiuso e vuoto, decisamente più vuoto del solito il paese.
Dopo cena ho messo il disco di Miles Davis, “Ascenseur pour l’échafaud”. Ero raffreddato e avevamo mangiato tantissimo. Con un paio di beefeater sono andato nel camper dove dormivo. Solo ascoltando i miei passi illuminati dalle stelle e qualche luce che arrivava da non so dove. Dentro al sacco a pelo, nel letto del camper e nella testa la musica di Miles Davis ho pensato a quello che poteva essere il film e mi addormentai.
Un film che non ho visto, bensì sognato.
Tutto ciò scritto qui sopra è quello che appena ricordo di un sogno. I personaggi sono esistenti, miei amici che non so proprio come siano finiti nei miei sogni.
I gatti stanno bene.

Platonico [breve storia di un amore mai nato]

Le poche rughe sul suo viso le davano un qualcosa di affascinante, uno sguardo.
Si presentò alla porta del bar con uno zaino dopo qualche anno che non si vedevano. Continuavano a sentirsi nonostante tutto, storie d’amore varie nel mezzo. Tra di loro niente.
Tanta sintonia.
Uno sguardo, un sorriso.
L’abbraccio durò qualche secondo. Stretti che si poteva sentire il cuore battere.
Un amore mai nato, latente. Lo sapevano entrambi.
Una decina di anni prima diedero sfogo alla passione sessuale, conclusasi con un un ennesimo sguardo. Poche parole per definire ciò che stava accadendo e soprattutto per porre fine alla passione.
Tante lettere.
In ogni scritta trapelava un amore latente.
– mi prepari un caffè?
– tutto ciò che hai bisogno, io sono qui.
Arriva con il caffè al tavolo in cui lei era seduta, si guardano, accenni di sorrisi e qualche frase amichevole.
– dormo qui, questa notte, ho qualche problema con il mio fidanzato. Ci siamo lasciati… abbiamo preso una pausa.
– tutto ciò di cui hai bisogno, io sono qui.
– ugualmente per me, ci sono sempre per te. Sempre.

Una carezza sul viso, le dita scorrono tra i capelli. Un sorriso affettuoso, non sanno se si vedranno di nuovo.
Lei se ne va.
Lui pulisce la macchina del caffè.

Sospiri.
Sorrisi.
Il vuoto che aumenta.

Tangeri [14 chilometri e si cambia continente]

Settimana libera e cambio continente.
Parto verso Tarifa alle 7 del mattino, stranamente piove. Trovai un passaggio con BlaBlaCar, un medico di 50 anni che si fa tutti i giorni il tragitto Los Caños de Meca verso Tarifa per lavorare nel centro medico.
In poche ore sono sul traghetto, il mio passaporto seminuovo porta già due timbri eccezionali.
Vietnam e Marocco.

Meltin Pot Tangeri
Ostello economico, nel dedalo di viuzze della medina di Tangeri, conosco un po di buona gente e andiamo subito a farci un giro.
Adoro il clima sociale arabo marocchino. Tangeri, come ogni città di frontiera (c’è un mare nel mezzo ma è pur sempre frontiera) porta molto della Spagna. Tutti sono innamorati dell’Italia. Non mi sento patriota ma all’estero mi rende sempre fiero di essere nato in uno Stato tanto amato (ci si accorge della bellezza di qualcosa ogni volta che non la si può sfruttare).

El Hafa Café
Bere the alla menta guardando la Spagna… avrei preferito un pastis.
Il bar è una grande scalinata su un promontorio che scende fino all’oceano atlantico. Il sole va a picco sulla nostra sinistra e verso le 21.30 è coperto dal monte. L’aria atlantica è fresca, il silenzio, le sigarette, il calore della menta e qualche dolcetto arabo. Il silenzio rotto dalle grida dei gabbiani.

Tangeri

La curiosità è disastrosa, vorrei vedere tutto il mondo, non ho tempo ne denaro a sufficienza.
Devo sfruttare il momento, scegliere… Algeria? Cambogia e sud-est asiatico? America Latina?
Di Pesaro mi mancano poche cose, i nonni, i gatti, il mio cane. Cercano e danno affetto. Se sopravvivo alla mancanza dell’amore di un animale o di un essere umano potrei anche passare i prossimi anni viaggiando e lavoricchiando.

Se sopravvivo.

Los Caños de Meca [leggasi varie ed eventuali]

Semi – Stabilizzato.

Questa è la parola esatta, tutti mi salutano! Quando vado al bagno la mattina tutti i lavoratori del Camping Faro de Trafalgar mi salutano per nome mentre io con totale nonchalance saluto senza ricordarmi i nomi.
In mezzo alla settimana non lavoro e decido di andare a Cadíz. Nessuna risposta dai couchsurfer scelgo un ostello a caso (il più economico, si chiama Cadiz Inn).
Arrivo, a Cadíz e mi annoio amaramente. 
Mangio tonno a volontà, birrette che non sono Cruzcampo, cerco di conoscere qualcuno.
In ostello incontro varia gente… niente di particolarmente interessante. All’ostello di Manchester almeno conobbi un ex monaco buddista.

Immagine

Continuo coi giri per la Costa de la Luz, Tarifa, tento l’ingresso a Gibilterra (niente da fare neanche questa volta, attenderò altri sei anni?)

[Lunedì 23 giugno, il futuro per me che scrivo] decido di andare a Tangeri. Devo arrivare a Tarifa e tenterò nuovamente con il BlaBlaCar.
Ci sono parecchi traghetti che attraversano lo stretto, quando arrivo vedo. Ho trovato su internet un ostello economico che pare sia dei “backpackers”. Le foto promettono bene… mi piace l’idea di bere pastis guardando la Spagna.

[Domenica 22 giugno, il presente per me scrivo] al bagno ho pensato che vivo una vita talmente precaria che non ho niente da offrire a nessuno. Non mi sono mai sentito così solo e triste come in questo periodo.
Lavoro con persone meravigliose ma soffro della difficoltà di interpretazione del linguaggio. Parlo spagnolo, ma non così bene. Parlo inglese ma qui non serve a niente. E l’italiano lo parlano solo in Italia.

Tutti mi chiedono spesso cosa farò a settembre, altro non posso dire che non lo so.